La stagione 1980 – 81, per la serie B, rappresentò l’atipicità per quello che riguardava la qualità delle partecipanti.
Era l’anno successivo al primo calcio scommesse che aveva visto coinvolte in serie A (al termine dell’annata sportiva 1979 – 80): Avellino, Bologna, Juventus, Lazio, Milan, Napoli, Perugia, Pescara ed in serie B: Lecce, Palermo, Pistoiese e Taranto.
I processi sportivi videro il Pescara, unico club assolto, nonostante l’accusa avesse chiesto una penalizzazione, mentre Genoa, Juventus, Lecce, Napoli e Pistoiese furono assolte su richiesta del Procuratore Federale. Il Taranto del presidente Domenico Greco (successivamente il testimone passò a Giovanni Buonfrate), iniziò la stagione con la guida tecnica di Gianni Seghedoni (poi dalla 25^ giornata subentrò Umberto Pinardi), con la pesante penalizzazione che ricevette nel processo d’appello (assieme al Palermo, mentre furono assolte Genoa,Lecce e Pistoiese), e la contemporanea retrocessione di due big del calcio nazionale di serie A, ovvero Milan e Lazio (entrambe retrocesse nella sentenza di 1° grado, con l’aggravante per i bianco azzurri di scontare, in B, un’ulteriore penalizzazione di 5 punti, poi non confermati in appello) con la stagione 1980 – 81, che cominciò con i rossoblu intenti nell’obbiettivo di annullare, in poche partite, l’handicap della penalizzazione, risultante decisiva al termine dell’annata , culminata con la retrocessione in serie C1, a quattro punti dalla quintultima piazza, utile per la salvezza, allora occupata dal terzetto Palermo, Varese e Verona.
Nelle prime dodici giornate, i rossoblu conquistarono, sul campo, 13 punti (ovvero 5 vittorie di cui due interne nei derby con Foggia e Bari, 3 pareggi e 4 sconfitte – di cui una casalinga), per un totale di 12 reti realizzate e 11 subite. Chiaramente, la classifica, indicava otto punti effettivi (al netto dei cinque di penalizzazione) ed il 7 dicembre 1980 (vigilia della festa per eccellenza dei tarantini, ovvero l’Immacolata Concezione), al Salinella arrivò il Milan “declassato” di Giacomini, che schierò Vettore (al posto dell’infortunato Piotti), quindi la linea difensiva (priva di Fulvio Collovati) composta da Tassotti, Maldera, De Vecchi, Minoia e Franco Baresi, una linea arretrata da far invidia a tanti club di serie A. In avanti il tecnico rossonero piazzò Buriani, Novellino, Antonelli, Romano e Cuoghi.
In quella domenica, chi scrive era presente in gradinata, un’ora e tre quarti prima del fischio dell’arbitro Prati di Parma, in un Salinella pieno come un uovo (motivo del grande anticipo occorso per raggiungere lo stadio e sedersi sui tavoloni del glorioso impianto) per via dei circa venticinquemila spettatori che invasero le arterie vicino lo stadio sia a piedi che con i mezzi propri e pubblici, muniti di vessilli, bandiere, cuscini, maglie, tutti rigorosamente rossoblu ed alcuni tifosi della Curva Nord, a petto nudo, nonostante si fosse all’inizio di dicembre, a dimostrazione dell’alto tasso di adrenalina per un match importante con sangue caldo, veloce nello scorrere nelle vene.
Il pasto domenicale saltato (chi mangiava a mezzogiorno era da considerarsi un privilegiato), sostituito da un panino, veloce da consumare o magari da un pezzo di focaccia casereccia, ci accompagnò allo stadio, consci che il match era improponibile quasi che si confrontassero i novelli Davide (i rossoblu) e Golia (i rossoneri), in un duello impari e quasi con verdetto predestinato.
Dopo essersi seduti sui tavoloni, freddi (ma durante l’incontro tutti i venticinquemila presenti rimasero rigorosamente in piedi, tranne l’intervallo tra i due tempi), sui cuscini o sui fogli del famoso giornaletto distribuito all’entrata, lo speaker, con voce carica, ma gracchiante dagli altoparlanti, già da un’ora prima del fischio d’inizio, inondava con musica dell’epoca, sparata a palla con l’immancabile inno rossoblu, il Salinella, che cominciava ad essere gremito. Cercava, lo speaker, con l’inno di spingere i presenti ad accompagnarlo, con il classico battimani, facendo provare i brividi per un avvenimento da definirsi storico.
Gli applausi all’uscita del tunnel degli spogliatoi (all’epoca esattamente posizionato tra la Curva Sud e la Gradinata) per le classiche operazioni di riscaldamento e i fischi indirizzati alla compagine rossonera, giunta a Taranto convinta di far un solo boccone della squadra ionica, aprirono ufficiosamente il match con il Diavolo rossonero.
L’uscita degli atleti per rispondere all’appello dell’arbitro Prati, fu accompagnata da scroscianti applausi d’incoraggiamento per i rossoblu (che venivano da un periodo non particolarmente positivo, per via delle tre sconfitte consecutive e due vittorie conquistate prima del grande match), quindi la magnifica coreografia all’entrata in campo, agli ordini dell’arbitro e terna designata.
Seghedoni schierò la squadra con Ciappi, tra i pali, poi Chiarenza, Beatrice, Ferrante, Falcetta, Picano, Gori, Cannata, Mutti, Pavone, Cassano.
La gara non presentò grossi problemi per il Taranto, anche perché il Milan, privo di Collovati (convocato per la nazionale che giocò in Grecia) e di Piotti (infortunato), al cospetto di una platea da far paura, pensò di amministrare il primo tempo ed eventualmente piazzare il colpo decisivo, nella ripresa.
Al 43° un cross dalla destra di Pavone, trovò il colpo di testa di Mutti che spiazzò Vettore e lo infilò di precisione. Fu una rete, storica, accompagnata dal boato dello Iacovone che si udì, distintamente, nei rioni Salinella, Italia Montegranaro e persino nella periferia del Borgo, rete che aprì il cuore ad un risultato positivo.
All’intervallo, nei commenti tra noi tifosi, la nota positiva che riscontrammo fu la gara ordinata disputata dai rossoblu, le belle geometrie disegnate, la prova magistrale del centrocampo, composto dal’asse Cannata e Pavone, quest’ultimo abile ispiratore delle manovre rossoblu. La trepidazione dei tifosi sugli spalti era accompagnata dall’ignoto che si attendeva nella ripresa, ovvero quale sarebbe stata la prevedibile reazione dei rossoneri e delle bocche da fuoco (Cuoghi e soprattutto lo spauracchio Antonelli), invece con grande sorpresa gli ionici tennero botta agli avversari, avendo molte occasioni da goal, per arrotondare il punteggio e, a nove minuti dal termine, giunse la rete capolavoro di Cassano che, ricevuta una palla da Cannata, entrò in area e dopo un paio di finte, ubriacanti, su Baresi trafisse, di sinistro, l’impietrito portiere Vettore.
Se al goal di Mutti il boato fu impressionante, fu ancora più assordante quello seguente la magia compiuta da Cassano ed il Milan, peraltro in dieci per l’espulsione di Tassotti, sbilanciato in avanti alla ricerca del goal possibile per la riapertura del match, crollava definitivamente a cinque minuti dal novantesimo quando Cannata, ben servito da Ferrante, entrò in area e sparò una bordata, appena intercettata da Vettore e, sulla respinta, Mutti ribatté in rete, siglando il 3 a 0, conclusivo.
Al termine della gara, noi tutti ebbri per il successo tributammo il meritato saluto ai nostri rossoblu accompagnati dalla standing ovation ed il lieto, nonché dolce, ritorno a casa ci consegnò una giornata storica ed una vigilia dell’Immacolata, all’insegna delle pettole che gustammo nella serata domenicale, convinti che la formazione rossoblu avesse le carte in regola per tentare una salvezza che appariva alla portata degli uomini di Seghedoni.
La storia decretò la prima, ed unica vittoria, sul Milan (al ritorno a San Siro, i rossoneri si presero la rivincita superando i rossoblu per 4 a 0), ma paradossalmente le vicende societarie (all’epoca, una consuetudine) che comportarono anche l’avvicendamento sulla panchina, da Seghedoni a Pinardi, portò alla fine il Taranto a retrocedere in serie C, dopo dodici anni consecutivi di serie B.
Quella annata fu il primo campanello d’allarme per la storia moderna del Taranto che cominciò ad essere una squadra ascensore, poiché fino al 1993, alternò stagioni in C1 ed annate in B, ma grazie all’ambiente e alla sua impagabile tifoseria, capace di affrontare tante battaglie, tante difficoltà, tante scalate impervie, costellate da gioie e dolori, la passione non venne mai meno. Quella parabola discendente, iniziata dalla scomparsa di Iacovone, fu anche causata dalla mancanza di presidenti mecenati, presenti negli anni 50 (Luigi Santilio dal 1950 al 1960), anni 60 (Federico Pignatelli 1960 – 64 e Michele Di Maggio 1964 – 1974), nella seconda metà degli anni 70 (Giovanni Fico 1974 – 1979 e Donato Carelli 1979 – 80), capaci di reggere le sorti calcistiche per lungo tempo.
La speranza rimane quella di poter rivedere lo Iacovone, in categorie importanti, con platee degne delle categorie nazionali, con avversari, arbitri e tutto il contorno, adeguato, affinché il tutto possa far riavvicinare o ravvivare la passione, l’adrenalina, l’interesse, le gioie che ormai, dopo 27 anni, sembrano essere argomenti sbiaditi, tipo scatti fotografici, in bianco e nero, da libro dei ricordi, narranti un’altra epoca, pionieristica, ma densa d’emozioni che potevano essere, almeno, raccontate, perché tramandate, alle generazioni future.
di Redazione